Buona a nulla – This Life's so Giada n. 11
Forse in fondo tutto quello che so fare è niente
I muri di cemento dell’edificio erano diventati grigio topo, scuro, bagnati dalla pioggia incessante e prepotente di quella sera di metà novembre. La strada, seminata di pozzanghere dalle varie grandezze, sembrava un percorso ad ostacoli costruito apposta per rendere il passaggio più difficile. Lidia fumava la sua sigaretta sotto la tettoia della casa di riposo. Di fianco a lei c’era la maniglia anti-panico della grande porta di sicurezza al primo piano, lasciata aperta per non rimanere intrappolata fuori. Così spalancata, era l’unica che le permetteva di rimanere aggrappata e non precipitare nell’acqua che aveva deciso di sommergere la città. Non doveva farsi vedere in quello stato, il mascara le era finito fin sotto le guance disegnando ramificazioni scomposte lungo quella che sembrava ormai una mappa delle sue emozioni. Col viso gonfio, ispirava il fumo a grandi boccate, sbuffando tutto quello che poteva riuscire a far uscire.
Il suo telefono squillò.
«Pronto?» rispose mettendosi composta, come se potessero vederla dall’altra parte della conversazione.
«Ciao Lidia, io sto andando a casa. Sei già andata dall’ospite della stanza 122?» era Andrea, la caposala. «Non dimenticarti dell’antibiotico che è l’unica cosa di cui si ricorda».
Lidia aveva una buona memoria, non dimenticava mai niente, sopratutto ricordava i volti delle persone con molta facilità anche se faceva fatica ad abbinarli ai nomi.
«Sì sì sono arrivata un’ora fa. Ho sistemato le ricette perché erano un disastro ma…» Lidia venne interrotta e immediatamente scoperta, come una bambina con le mani nella marmellata.
«Hai pianto?» chiese Andrea.
«No, cioè, perché?» ribatté Lidia.
«Senti, a me non importa se piangi o ti disperi. Ho i miei problemi anche io ma devi fare bene il tuo lavoro. Non puoi continuare così che poi mi chiedono se ti maltratto. Dai, ricordati l’antibiotico. A domani».
Lidia rimase appesa a quella telefonata di routine. La chiamava ad ogni fine turno. Si prendeva cura di lei in un modo così crudo, quasi materno ma a una distanza di sicurezza tipica di chi non deve intromettersi troppo nella vita di qualcun altro.
Lo schermo del telefono si illuminò di nuovo ma questa volta per un messaggio:
“È finita, mi dispiace”
e nient’altro.
Sbattendo i pugni al muro con ancora il telefono in mano, Lidia si dimenò isterica facendo cadere il cestino-posacenere di metallo che in silenzio l’aveva guardata fumare per tutto quel tempo. Raccolse i resti di mozzicone. La cenere se la porterà via la pioggia, pensò rientrando.
La stanza 122 ospitava un padre a cui lentamente veniva strappata via la memoria da una malattia degenerativa. Si era graffiato la mano destra nel grande cortile, mentre si prendeva cura del roseto insieme a sua figlia. Nonostante fosse autunno inoltrato le bacche di rosa canina offrivano a quel luogo ostico piacevoli accenti di colore. L’antibiotico era solo il nome per l’acqua naturale che circa ogni dodici ore doveva arrivare. Non ne aveva realmente bisogno ma, come per la sua abilità nel prendersi cura di una pianta all’apparenza inutile, esigeva cure anche lui.
«È permesso?» senza aspettarsi una risposta Lidia aprì la porta di quella stanza. «Le ho portato l’antibiotico» continuò, «Come si sente oggi? Va meglio la mano?». L’uomo, seduto sul letto con le gambe rivolte verso l’uscita e i palmi delle mani sulle ginocchia, alzò il volto. «Anna, sei tu?» il nome di sua figlia.
«No signore sono Lidia, le ho portato l’antibiotico. Glielo metto qua, lo deve bere tutto» rispose come ogni volta.
«Ah. Ciao» disse l’uomo con i suoi occhi vitrei. Con una mano prese il bicchiere e bevve dalla cannuccia di plastica fucsia fino all’ultima goccia. «Ma Anna… ormai la mia mano sta bene. Tu come stai?»
Quella sera venire scambiata per chi non era le dava sollievo.
«Male. Eric mi ha lasciata» rispose d’impulso reggendogli il gioco, «Mi ha lasciata con un messaggio per evitare di guardarmi negli occhi». Approfittando di quel momento di debolezza raccontò ad alta voce come si sentiva.
«Oh. Mi dispiace» fece lui.
Ignaro della storia ma conscio delle lacrime che stavano per uscire, quell’anziano signore le passò un fazzoletto di stoffa. Ne portava sempre uno pulito in tasca. In quel momento Lidia si chiese se anche in lui si era mai creata la consapevolezza di perdere e aver perso molte cose, cose che non ritorneranno più.
Come riusciva a pensare ad una cosa del genere mentre lei poteva ancora contare sulla sua facoltà di ricordare? Eppure, in qualche modo, le parve che entrambi cercassero di abituarsi ai cambiamenti provocati dalla loro nuova situazione.
«Non importa. Ora si riposi, domani verranno le sue nipoti a trovarla, deve essere in forma» disse infine uscendo dalla stanza e